In questa breve raccolta di racconti l’autore muove sapientemente i fili della narrazione inducendo il lettore all’ascolto con i toni accoglienti e soffici di una parola nitida, rassicurante, quasi innocua che ad un tratto introduce nei territori più complessi dei grandi temi della vita, della storia, della società in cui si districano e risolvono le nostre esistenze.
L’INSOSTENIBILE GRAVITÀ DELLA NEVE
Ringraziamo lo scrittore Francesco Scaramozzino per averci inviato la sua attenta e puntuale nota di lettura del libro “La passeggiata a ritroso di Robert Walser” di Paolo Buzi
È un libro che ammalia, questa breve raccolta di racconti che, insieme, nella successione armonica e nella coerenza dei contenuti, si dispongono a formare un testo organico caratterizzato, nella struttura di fondo, dalla sistematicità tipica del romanzo, genere a cui pure pare volersi deliberatamente sottrarre. Si potrebbe anzi dire che la scelta dell’autore, volta ad allentare ogni vincolo logico nello sviluppo della narrazione – sciogliendo i nodi che uniscono le diverse sequenze in cui la trama, pur in filigrana, si dipana – risulta affatto coerente con le figure, centrali nel libro, della neve e del ricordo: la prima, immagine da cui prende le mosse rievocando la morte di Robert Walser avvenuta il giorno di Natale del 1956; e la seconda, il ricordo, che diventa tramite fra l’autore e lo stesso Robert Walser, di cui Buzi ripercorre appunto la famosa “passeggiata”: a ritroso, necessariamente a ritroso, in base al meccanismo con cui, per sua natura, opera la memoria umana.
Ed è un libro che ammalia, questo di Buzi, perché, muovendo sapientemente i fili del racconto, ora chiama con voce suadente, a tratti appena sussurrata, ora induce all’ascolto con i toni accoglienti e soffici di una parola nitida, che appare subito rassicurante, quasi innocua. E ad un tratto, cambiando di scenario, introduce nei territori più complessi dei grandi temi della vita, della storia, della società in cui si districano e risolvono le nostre esistenze.
Insomma, come un campo di neve che invita ad attraversarlo nel suo candore, e con quello stesso candore improvvisamente abbacina, avvolge, imprigiona, così il lettore si accorge che tanta levità ora lo trattiene. Che la neve costringe con più forza di quanta si immagini, che il suo grido ora ci “convoca”, per usare un termine caro a Lévinas, autore citato nel libro fra i tanti riferimenti “alti” che vi ricorrono.
Solo per esemplificare, già dal racconto “Un libro”, il tratto cristallino che caratterizza la prosa di Buzi, lo stile terso mai greve che assume di buon grado i toni dell’ironia, trasformano all’improvviso “il libro migliore del mondo” – il più venduto, il più ricercato, il più letto, perfino “il più bello come oggetto d’arredo in qualsiasi libreria” – in un libro di “Alta cucina” con ricette sofisticate destinate a un pubblico elitario, che induce, per differenza, a volgere lo sguardo a chi invece resta escluso dalla grande abbuffata globale che non ha occhi per chi resta ai margini del tavolo.
Ancora, nel racconto eponimo, “Tomzack”, il gigante che non ha mai parlato e che spaventa i bambini, diventa antropomorfosi di tutte le solitudini della nostra società, di “Chiunque sia osteggiato, cacciato, malvisto, umiliato”, uomo o donna, vecchio o bambino, esule o profugo in fuga da una guerra. Mentre ne “Il cielo”, “il cielo dei bambini, il cielo più azzurro di tutti”, diventa presto cielo adulto, cielo di guerra, dall’odore acre, “coperto di nuvole false, piene di polvere radioattiva e di metalli fusi”.
Il tema della violenza di genere, poi, di estrema attualità, viene ripreso in quello che può essere considerato l’epicentro dell’intero percorso narrativo del libro, il punto in cui l’intensità emotiva converge e si dirama, retrospettivamente e in prospettiva, diventando registro di lettura del già detto e di quello che il libro ha ancora da dire: il racconto “Una donna”, che parla forse di una donna qualunque, la prima persona che Walser incontra sulle scale all’inizio della sua passeggiata, una donna straniera “che ostentava non so quale pallida e appassita maestà”. Ma che nel racconto diventa prima, per assonanza, la madre della Cecilia dei Promessi Sposi, che procede verso il convoglio recando fra le braccia la figlia colpita dalla peste, e dal cui aspetto traspare la stessa “bellezza molle a un tempo maestosa”; quindi simbolo universale e insieme intimo di dignità nel dolore, toccante per il tratto umanissimo con cui la descrizione procede, sospinta dall’esperienza vera e profonda di cui l’autore riporta una intensa, personale testimonianza.
Così, da questo centro che si irradia, anche nelle pagine che seguono la narrazione introduce con la stessa levità, la stessa innocente malia, i grandi temi della vita e della storia, come nel successivo “Fabbriche”, dove il problema della sostenibilità ambientale fa da controcanto anche ideologico alla denuncia di uno sviluppo industriale omologante fonte di anomia e abbruttimento urbanistico. Degrado che pare trovare, se non una forma di riscatto, almeno un’oasi elegiaca di ristoro ne “I due boschi”, dove l’afflato panico del racconto diventa tutt’uno con il pregio di una scrittura che ordina, cesella, impreziosisce, e per un attimo sembra proteggere e perdonare: l’attimo “spazio-temporale” della sosta, quello di una sospensione quasi onirica nell’antro salvifico, nel bosco fatto cattedrale di cui solo la scrittura poetica sembra capace.
La compattezza del libro, infatti, la sua organicità, l’armonia complessiva che se ne ricava, si esprime anche nella corrispondenza lucida e consapevole fra forma e contenuto, scelte stilistiche e tematiche, che permette di passare dal nitore di una sintassi affabile e inclusiva all’uso di termini (“ermeneuta”, “fitomorfosi”, “ponocidio”) e dotte citazioni (da Aristotele a Lévinas a Rilke), portato di una competenza linguistica e di una preparazione culturale che, per la coerenza complessiva in cui si dispongono, riescono a raggiungere il lettore in modo naturale, discreto, mai forzatamente esibito.
La passeggiata a ritroso di Robert Walser (o di Paolo Buzi) è dunque un libro che rispetta le attese insite già nel titolo, di per sé impegnativo, dimostrandosi sempre all’altezza del compito, pur ambizioso, che si propone:
passeggiata mentale che ripercorre con lo strumento del ricordo la passeggiata di un “geniale girovago”, seguendone anche fisicamente le tracce attraverso i richiami testuali dall’originale che compaiono qua e là come intarsi ad orientare l’autore e indirizzare il testo.
Percorso di un pensiero, quindi, e con ciò stesso “discorso” sempre aperto sui grandi temi della vita, destinato per sua natura a continuare, come emerge proprio dall’ultimo racconto, “Il sentimento del mondo”, che rimanda consapevolmente al primo, in una sorta di complicità circolare della narrazione che la inserisce in un quadro di complessiva sospensione, dove tutto finisce e allo stesso tempo inizia.
Come bene rappresenta anche la bella copertina di Gabriele Quartero, dove un’alba può essere un tramonto, la forma stilizzata di un ombrello quella di un albero all’orizzonte, e l’uomo che sta per atterrare forse ha appena iniziato il suo volo.
Francesco Scaramozzino
Melzo, gennaio 2021