Visitare il suo sito, diegobardonephotographer.com, è tuffarsi in un mondo in bianco e nero, a metà tra una vita moderna analizzata con occhi più indulgenti e emozionali e un film in cui da un momento all’altro ti sembra di scorgere in mezzo alla nebbia di Milano, Alberto Sordi che dice che ha il magone, o Totò e Peppino col colbacco.

Il suo territorio “di caccia” è in prevalenza Milano, appunto. Ogni giorno Diego esce per andare in caccia di una fauna da catturare in una sola immagine.

Momenti di romanticismo, di fretta, di solitudine. Il libro contiene due testi di presentazione curati da Francesco Tadini e Melina Scalise, titolari dello Spazio Tadini – Casa Museo e un botta e risposta tra Diego e Maurizio Garofalo, che ne ha curato la veste grafica. Ma facciamoci dire da lui, quello che è il cuore di questa raccolta e il suo nascere.

Diego, hai dato a chi ha tra le mani Street Life, una opportunità enorme, dare a Milano una luce di vita vissuta per strada, una sorta di drone che finalmente si cala nello specifico delle esistenze. Come fai a cogliere queste storie in un fotogramma?

Sono follemente innamorato degli umanisti francesi del dopoguerra: Bresson, Doisneau, Boubat, Ronis, Izis per citarne alcuni. Ho negli occhi quel modo romantico, ironico e a volte malinconico di raccontare la vita di tutti i giorni, ed è ciò che cerco di fare, nel mio piccolo. Serve tempo, pazienza e un minimo di occhio…ma soprattutto scarpe buone e la voglia di innamorarsi del mondo, come diceva spesso Abbas. Fotografare in mezzo alle persone mi rende felice e mi sento come loro, né più, né meno. Mi sembra tutto assolutamente semplice.

Il libro si articola in alcune macroaree, alcuni temi portanti, spiegaci meglio e dicci perchè proprio quei temi.


La tua arte fotografica si inserisce in quel filone in cui chi decide di fotografare, racconta storie di ordinaria invisibilità. Una cosa che ancora la parola scritta e i suoi addetti ai lavori fanno fatica a fare, la rivoluzione del riprendere ad avere attenzione per il prossimo parte dalle immagini?Cito Winogrand per spiegarmi. Lui sostiene che un fotografo documentarista sa per certo ciò che vuole raccontare, quindi parte con un’idea ben precisa e con un ‘piano’ sotto braccio. Un fotografo di strada esce con la propria macchina fotografica senza mai sapere cosa lo aspetterà dietro l’angolo. Lo fa unicamente per il piacere di vivere la propria vita lungo i ‘boulevards’ delle nostre città. Per cui nessun progetto a priori, è la ripetitività dei soggetti ripresi – probabilmente vengono cercati inconsciamente – che porta alla costruzione di alcune serie di fotografie. Sono affezionato alla raccolta di immagini che riguardano i ‘runners’. Cerco, per quel che posso, di costruire fotografie che strappino un sorriso ed è l’unico caso in cui esco con un’idea ben precisa.

 La fotografia documenta, produce cultura e in ultima analisi genera memoria. Senza memoria siamo ‘nulla’

. Penso, ma ovviamente sono di parte, che non ci sia mezzo di comunicazione che abbia la potenza evocativa di una fotografia. Se osservi le immagini di un film e chiudi gli occhi, quelle immagini ‘le perdi’. Se hai di fronte una fotografia, puoi chiudere gli occhi quanto ti pare, ma quando li riapri sempre lì sta e sei costretto a osservarla. Ribadisco: nell’immediato non c’è nulla che abbia la potenza comunicativa di un’immagine stampata. Ci sono ottimi autori in Italia che hanno davvero poca visibilità, si è perso per strada il gusto di osservare immagini. Come a dire che la cultura in questo paese è sottostimata, ma il discorso abbraccia tutta l’arte in generale. Sarebbe bello se storia della fotografia venisse insegnata – ludicamente – sin dalle elementari, probabilmente aiuterebbe a vivere una vita con il naso all’insù e non a testa bassa (uno smartphone). Forse sto sognando a occhi aperti…

C’è qualche aneddoto particolare, qualcuno legato a foto fatte che hanno avuto uno strascico? Specie in “Street Life”?

Ne racconto una. Nel libro c’è una foto che ritrae un maratoneta e un poliziotto. Il poliziotto indica con la mano la strada che deve percorrere il corridore. Osservandola, immancabilmente, tutti sorridono – sembra il fatidico ‘noio volevam savuar’ di Totò -. Il runner aveva il nome sul pettorale, per cui l’ho contattato su FB e gli ho mostrato la foto, auspicando che fosse dotato del giusto senso di ironia. Ha sorriso pure lui, ma in realtà stava chiedendo al vigile dove andare per potersi ritirare dalla corsa. Per cui, ciò che per i più è divertente, per lui non lo era affatto.

Si credeva che le fotografie rubassero l’anima dell’immortalato, quanto ti è rimasto delle persone che nel corso del tempo hai ritratto, chi di loro ha dato più “colore” al tuo lavoro?

Tutti, nessuno escluso. Io sono loro, loro la trasposizione in immagini della mia allegria vagabonda. Fotografo per ricordare – e possibilmente per non essere dimenticato – fanno tutti parte del mio mondo e io li amo per questo, anche se la maggioranza di loro non lo sa.

In un mondo in cui sempre meno gente legge, tu hai fatto un libro di immagini. Non devi convincere noi che già sfogliamo avidamente il tuo libro, ma prova a spiegare perchè questo libro non può mancare in una biblioteca, oppure, come ha fatto qualcuno, appoggiato su un tavolino e da sfogliare per tuffarsi in una realtà sicuramente meno virtuale dei social.

Sinceramente è una domanda a cui non so rispondere. Posso solo dire che fotografare per me è come respirare e che dentro le mie immagini metto tutta la passione che arde dentro di me, ma davvero non so fare spot pubblicitari a mio favore, non è nella mia indole.

Diego Bardone: il fotografo narrativo della “street life” milanese