Il Misantropo dei Sargassi è una bella raccolta poetica di Andrea Mella, messa su carta rigorosamente ecologica e resa pubblica dalle Edizioni del Foglio Clandestino nel dicembre 2018, grazie all’attento inesauribile lavoro di “scouting” di Gilberto Gavioli e dei suoi collaboratori. La raccolta si divide in tre sezioni – “Incerte maree” (quasi un’endiadi), “Transito”, intenso, originale esempio di poesia “civile”, e l’eponimo “Il Misantropo dei Sargassi” – tutte accomunate dall’elemento dell’acqua inteso nella sua valenza archetipica, quella del mare, che domina la silloge fin dalla citazione posta “in limine”, tratta da ‘Gente spaesata’ di Cesare Pavese: “Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare […]”.
La poesia di Mella, infatti, è un tumulto irrisolto, perché apparentemente irrisolvibile, fra dentro e fuori, fondo e superficie, riva e mare aperto, traversata e approdo, in cui la sintesi è densità, e la parola, mai scontata, mai banale, la “cuora” che “galleggia lenta e nasconde […] i guai deposti sul fondale”. Questo scarto rispetto al senso che si fa occulto sotto la superficie dell’immagine o del discorso, è dunque il prezzo che la parola è costretta a pagare per sottrarsi alla condanna di un silenzio altrimenti inesorabile, quello a cui allude il brano citato di Pavese e non a caso, nella latente, discreta sistematica che pervade la silloge, ripreso poco più in là dall’autore: “Tu mi cerchi con lo sguardo, io taccio, e mi tolgo, una volta per tutte, gli occhi irrisolti” (“Cavo gli occhi”).
Nella prima parte della raccolta, come detto, tutto è contrasto fra dentro e fuori, emersione e soffocamento, anelito e ricaduta: “Nascondo un gonfiore sottopelle. Una pena”, “L’anima dalla via s’immette nel covo”, “I giorni sono folli dentro un’anfora di vita”. Contrasto che è anche tensione fra presente e passato, ricordo che chiede di essere evocato nel dolore intimo di una perdita, dove il mare, nella vastità del dolore universale, si riduce a “Rigagnolo” di una storia personalissima, consapevole della propria particolarità e proprio per questo intensa nella sua irriducibile irripetibilità: “La voce volgeva ai bassi e la bocca andava ingigantendosi”; “Non credevo che il male non facesse dolore sfacciato, fosse come le tue mani bruciate dai lavori” – versi in cui la parola si presta, non senza fatica (lavoro), a un’operazione di trasfigurazione dell’espressione, che è la risultante stessa del dolore quando tocca nell’intimo, alla radice. E che fa vibrare un altro dei registri in cui si declina il concetto di superficie, quello del corpo – come bene mette in evidenza Filippo Parodi nella postfazione al libro – colto nella sua naturale vulnerabilità perché più di ogni altro esposto, nella dialettica dentro/fuori, a trasfigurarsi in smorfia, torsione, dolore appunto:“Ricordo quando te ne andasti: le cure dell’addio, gli occhi buttati all’indietro”, “Hai tutta la bocca spaccata, sei caduto in strada con la faccia?”, “il ghiaccio nei polmoni, un urlo attutito dal tiepido del tabacco, dal fiato che rimonta stanco”, “e la lingua andava a cercare la pace nella mollica”.
Il rapporto della profondità con la superficie, come quello del passato con il presente – e del senso con una “superficialità” di maniera che ne costituisce il principale pericolo di alienazione, se non di esplicita negazione – è dunque sempre doloroso e complesso, comunque mai banale, spesso collaterale, quasi accidentale, come quello del “muschio che chiama acqua sulle pareti” o quello del “cane sotto l’impermeabile”, quello dell’ “iridescenza del salso sulla guancia”, dove anche “lo sguardo naviga nei paraggi e si incaglia”. Rapporto difficile, quasi di reciproca diffidenza, dove la fessura “sulla schiena del pane” quando diventa invenzione, o anche solo scoperta, crea l’allarme del “temporale” perché diventa al tempo stesso attacco, se non già violazione di un ordine che va costituendosi, seppur a modo suo. E dove, specularmente, anche uscire in superficie diventa gioco pericoloso, che sia il gesto delle prede “che devono stare basse, nell’acqua, per sfuggire all’ira” oppure il ricordo di un vecchio “che si toglie l’ossigeno dal muso”.
Il travaglio della superficie, sviluppato da Mella nella prima parte della raccolta, confluisce quasi per inerzia, come suo ineluttabile sviluppo nella sezione “Transito”, in cui l’autore, trattando una materia delicatissima, ci offre un esempio alto e originale di poesia “civile”. Qui, nel riferimento alla tragedia di Lampedusa dell’ottobre 2013, nella quale persero la vita 368 migranti, la superficie del mare diventa teatro di un altro contrasto, drammatico ed epocale insieme, dove “Il viaggio si è fatto largo, solo un fremito, a galla nella testa”, e la domanda quasi provocatoria “Perché parti? Perché vai?” non ha risposta se non nell’ “ignoto che spinge contro i nervi, e tira, tira verso prue di abbandono e misericordie attese”. Ma in questa sezione, come detto, il contrasto è innanzitutto dramma e la parola sguscia attraverso la torsione di prima e muta all’improvviso, spesso recuperando la propria centralità in un discorso che incede a tratti, come per sussulti: insomma, si fa netta, tanto è chiaro il senso che ora la investe, ciò che clamorosamente accade: “Bevi l’ultima acqua prima di maledirla, detta una voce, allo stremo”; oppure: “mai è arrivata in noi la sazietà”. E ancora: “mai viene il guado/tutto sembra un inizio/un continuare a originarsi/eternamente privi di meta…”. Infine, perentorio il verso: “Non vogliono innanzitutto che siano i figli a cadere nel gorgo”. Qui, dunque, la parola si sostiene da sé e anche la trama spesso fitta, a tratti ossessiva, di allitterazioni e assonanze con cui sembrava cercarsi a rimandi, insistente nella prima parte (“Appuntamento alla stazione”, “Nella processione di scirocco”, “Nei sulle labbra”, “Tremende”) va ora scemando (solo per esemplificare, si noti la sequenza “nervi scendere iridi onde nero andare radar ritardo” di pagina 90)[1].
In questa sezione, che è essa stessa un transito, ricorre invece l’immagine di “una sposa”, non meglio descritta se non con il termine sposa, nell’atto stesso di una pronuncia che pare sospensione, attesa: sposa che ha già pronunciato il suo “sì”, ma alla quale ora “manca il bacio della vita”, sposa che “sotto le vescicole bisbiglia”, “viso di sposa che si avvera” nel precipizio, “sposa che trattiene per le baie l’isola, più che può […] per avvicinare le sponde perché ama/ama senza averne il diritto”. Sposa, infine, “che ha le anche sfasciate, ma entrata in acqua, un lume per ogni medusa, va a cercare almeno un segno”. Sposa senza sposo, dunque, in cerca di un segno che apre all’ultima parte del libro, “Il misantropo dei Sargassi”, che pur nella continuità del racconto dà significativamente il titolo all’intera silloge, e dove infatti l’autore, in esito al percorso sviluppato nelle due precedenti sezioni, mette in guardia da facili filantropie fini a se stesse, da un approccio semplicistico e buonista, falsamente idealizzante al problema dell’immigrazione visto ora nella sua valenza generale, generalissima, universale di relazione con l’altro, destinata a presentarsi sempre più spesso come relazione con il diverso. Perché “il filantropo, si sa, lo fa per tornaconto/sfida il male con la ricompensa e il male, il male resta in sella, bene allacciato”.
La presa di distanze da parte dell’autore avviene però sorprendentemente (e intelligentemente) nel modo più difficile e paradossale, per contrasto appunto, vestendo l’abito scomodo e innaturale del misantropo e con un linguaggio crudo se non crudele, che finisce però con l’attribuire alla finzione una particolare forza di verità: in questa sezione, infatti, il pane è “malcotto” e “Sono ore di cuore nel bitume”; in essa si può trovare “nello sfintere il radicamento vivo” o l’immagine del venditore che “spegneva la cicca contro un blocco di ghiaccio rigato dal sangue”. Perché qui la lotta che affiora in superficie è quella fra uomo e preda (che in poesia è anche lotta fra parola e significato), nella fabbrica di pesce dove “dotare di camici chi sventra e sala”; è “Lo scambio di aria fra branchia e parola” di chi ha imparato “a destreggiare le branchie nel poco sugo di sangue”; è infine l’immagine del “polipo ancora da sbattere”, delle anguille come “lacci attorcigliati ma più gonfi, più venosi”. Immagini che evocano la trasfigurazione anche simbolica di corpi arti e volti e insieme di sguardi voci e anime, e che fanno del libro di Mella un invito consapevole e coraggioso a un percorso di catarsi e insieme di “ascesi” inteso come “ultima battaglia, lo scatto che meritiamo”, “Fino all’assalto ultimo al confine al limite invalicabile” dove squarciare quella “poltiglia di talli in superficie” che qui ha preso il posto della “cuora” della prima sezione. “Il misantropo dei Sargassi” si conclude quindi con un messaggio di speranza perché forse, al culmine dell’ascesi – intellettuale e morale assieme – sarà possibile “scoprire che dall’altra parte” oltre questo tumultuoso addensarsi di contrasti fra dentro e fuori, fondo e superficie, bandolo e matassa, “ci sono ancora e sempre: gli umani”.
E così, nella sua apparente immobilità, anche l’immagine della “sedia a dondolo” di giunchi e vimini arenata alla luce a picco di un mezzogiorno di fine estate, che appare nella bella (geniale)[2] copertina di Loredana Celano circondata da sabbia dune e orme lontana dal mare, sembra assumere un diverso significato, e all’improvviso la mancanza di prima si trasforma in attesa, il limite in confine, e l’abbandono in arrivo, approdo ad un Nuovo Eden dove finalmente la perfezione non sarà più per contrasto solo presagio del male:
“e le campane, come sempre, volavano
sopra le parole, accompagnando
i passaggi degli anemoni, delle cicale, dei ricci.
Diranno più tardi, quando faceva
l’infermiera al Cattinara, che il male
già si intuiva dalla maniera di sorridere
perfetta”.
Nota di lettura di Francesco Scaramozzino
Melzo, febbraio 2019
[1] Per quanto riguarda la sezione “Incerte maree”, sempre per esemplificare si notino le sequenze “inspira/prima, contenere/intera, senza/sentenza, preso/posto, parto/partenza, manciata/minuti, povera/polvere” a pagina 28 (“Appuntamento alla stazione”); o la sequenza “tempo/tempesta, torna/storia, bocca/spaccata/caduto/faccia, spiriti/espatriati, piedi/preti” di pagina 29 (“Nella processione di scirocco”).
[2] Senza voler scomodare Derrida e i concetti di orma/traccia e assenza, mi riferisco qui, in particolare, alla scelta dell’oggetto, una sedia a dondolo, inusuale per una spiaggia dove ci si aspetterebbe piuttosto di trovare una sedia a sdraio; ma la sedia a dondolo meglio si presta a richiamare il movimento del mare nelle forme dell’onda, che qui resta solo evocato dalla immobilità della sedia in una lontananza che diventa attesa e con ciò stesso presenza.
Francesco Scaramozzino è nato a Melzo (Mi), dove vive, nel 1962. Ha pubblicato raccolte di racconti (Storia di Susy, Nuova Compagnia Editrice, 1996; Pump up the volume, Moby Dick, 2005) e libri di poesia (La bellezza di Efesto, Tracce, 1995; Sembianze, Joker, 2001; Sedersi accanto, Joker, 2007). Con le Edizioni del Foglio Clandestino ha pubblicato la rccolta di racconti Una breve stagione.
Una prosa cristallina legata alla rilettura dei ricordi, ai pezzi di vita che ti portano a superare i gradini sino all’età adulta. Un mondo ingenuo e a volte semplice, ma arricchito da personaggi veri. Figure scolpite come ‘I fratelli Carminati’, giocatori nella squadretta locale col padre contadino che li porta allo stadio seduti sul trattore; la nonna (‘Rimedi’) che diffonde in casa la grande stampa perché usata sotto la maglia per ripararsi dal vento; la protagonista del raffinato racconto surreale ‘Febbraio’ che sta perdendo la memoria e fa la fobia dell’ordine. Una breve stagione che ha lasciato il segno, allo scrittore e ai suoi lettori, costretti a rivedere i loro personali ricordi. (P. Lezziero)